Trump e Hillary, il dibattito più squallido
Alessandro Nardone per Vanity Fair – Una pagina di storia, con ogni probabilità la più nera delle campagne presidenziali americane contemporanee. Cominciato senza la proverbiale stretta di mano tra i due contendenti e conclusosi con un flebile battito di fair play indotto dall’ultima domanda, il dibattito andato in scena la scorsa notte a St. Louis ha mostrato una volta per tutte i grandissimi limiti di due candidati che dividono (quando invece ci sarebbe bisogno di unire) traendo forza l’uno dai punti deboli dell’altro. Le figure di Hillary Clinton e Donald Trump si stagliavano sullo sfondo dello scandalo dei Trump Tapes, ai quali il front runner repubblicano ha risposto in anticipo convocando una conferenza stampa incentrata sulle presunte molestie sessuali commesse da Bill Clinton ai danni di Juanita Broaddrick, Paula Jones, Kathleen Willey e Kathy Shelton e costringendo, di fatto, la sua avversaria a buttare la palla in tribuna liquidando l’argomento con un secco «molte delle cose che dici non sono vere», dopo aver esordito affermando che «con altri candidati repubblicani ero in disaccordo, ma non ho mai detto che non potevano essere presidenti. Con Trump è diverso. Lui dice che il video non lo rappresenta, e invece è esattamente quello».
Dal canto suo, un Donald Trump visibilmente provato, ha risposto alle stoccate della candidata democratica definendo le squallide frasi sessiste pronunciate nel 2005 «discorsi da spogliatoio, solo parole», mentre «quelle di Bill Clinton erano azioni: nessuno ha mai abusato delle donne come lui nella storia della politica, ha ricevuto l’impeachment per molestie sessuali» per poi spostare l’attenzione sull’email-gate: «Hillary Clinton si dovrebbe vergognare di se stessa e scusarsi delle 33 mila email cancellate», rincarando la dose e assumendosi l’impegno «se diventerò presidente» di nominare «un procuratore speciale per indagare su di te. Dovresti andare in galera».
Con il trascorrere dei minuti, il compito degli ottimi moderatori Anderson Cooper e Martha Raddatz è andato tutt’altro che in discesa, perché i due candidati se le sono date di santa ragione anche su argomenti apparentemente meno caldi rispetto agli scandali come l’economia, la politica estera e quella ambientale. Il motivo risiede nella scelta di campo che è stata compiuta sia da Hillary che da Trump, ovvero quello della personalizzazione di qualsiasi argomento. Un approccio per il quale, parlando di tasse, è stato inevitabile imboccare il sentiero che conduce alle ingentissime deduzioni fiscali di cui lo stesso Trump ha ammesso di aver beneficiato precisando, però, di averlo fatto «insieme ai tuoi amici che finanziano la tua campagna elettorale», così come, al centro della discussione sulla politica estera sono finiti i reciproci j’accuse come «i disastri compiuti da te e dall’amministrazione Obama in Medio Oriente» da parte Trump, o il riferimento agli «affari che fai con la Russia» sollevato da Hillary. Insomma, una battaglia senza esclusione di colpi che è senz’altro servita a Trump per rimanere in sella alla nomination repubblicana, puntellare il suo zoccolo duro e tentare di fare proseliti in quella grande fetta di elettorato americano che continua a non digerire la candidatura della Clinton – compresi i sostenitori di Sanders che, non a caso, ha nominato diverse volte – e alla candidata democratica, per continuare nel suo tentativo di rafforzare il concetto di essere l’unica soluzione plausibile nel tentativo di sventare i pericoli ai quali un presidente unfit (inadatto) come il suo avversario esporrebbe il Paese.
Le variabili e i possibili colpi di scena di questa pazza campagna elettorale sono talmente tanti da rendere qualsiasi previsione poco più di una semplice supposizione, ma una cosa è certa, e cioè che gli Americani, e insieme a loro ogni singolo cittadino del mondo, meriterebbero molto, ma molto meglio del meno peggio.