Il rapporto tra Cina ed Etiopia

di Massimo Ippolito – Oggi affronteremo un argomento di nicchia, lasciamo per un attimo i temi geopolitici che vanno di moda e fanno tendenza per occuparci di quisquilie. Banali, insignificanti.

Come ad esempio l’apertura, per la prima volta nella storia, di una base militare cinese in un paese straniero. O almeno prenderemo le mosse da questo avvenimento per approfondire la situazione nel Corno d’Africa, soprattutto il rapporto fra Cina ed Etiopia.

Per molti anni l’impegno della Cina ha coinvolto altre direttrici, in Africa, come mostrato nella cartina (tratta da LIMES di circa un paio di anni fa) riprodotta in calce :

Negli ultimi anni, invece, s’è aggiunta una nuova direttrice di ‘conquista’ che parte da Gibuti e raggiunge l’Etiopia.

Gibuti è un Paese piccolissimo con soli 900.000 abitanti. Ha così tante basi militari straniere da ospitare oltre 25.000 militari. Un militare straniero ogni 36 abitanti, non serve nemmeno una guerra per conquistare Gibuti. E’ stata già invasa, economicamente e militarmente. Ma pare che a tutti vada bene così. In primis alGibuti che dall’arrivo dei cinesi ci sta solo guadagnando, almeno nel breve termine:

– La China Merchant Holdings International ha acquistato il 25% delle azioni del porto di Gibuti per 185 milioni di dollari
– Il Doraleh Container Terminal (sempre al porto) è stato acquisito per due terzi, sempre dai cinesi

Salta agli occhi che, come in una partita a scacchi, con una mossa la Cina guarda verso due obbiettivi : il primo commerciale (di fronte a Gibuti passa il 40% del traffico merci di tutto il mondo!) e il secondo strategico (da Gibuti partono i droni che attaccano i terroristi islamici sia in Yemen  40 km a nord- che in Somalia – a sud-est di Gibuti). Sebbene una decina d’anni fa l’America avesseampliato di molto (6 volte) la sua base in Gibuti, ora la Cina inaugura una base militare nuova di zecca per 10.000 uomini, è la base di Tadjoura. Il rapporto tra autoctoni e militari scende così da 36 a 26 : 1. Questa è la fine che ha fatto l’ex colonia francese.

Posso strapparvi una risata? La Cina, spiega il portavoce del ministero della difesa cinese, è andata in Gibuti per motivi umanitari: per sconfiggere la piaga della pirateria nel Golfo di Aden. Ovviamente in 6 anni ha quasi azzerato gli attacchi, ma ora – facilissimo da prevedere – non ha alcuna intenzione di levare le tende.

Anzi. Gibuti ha subito capitolato e i nuovi pionieri hanno costruito una testa di ponte lunga 750 km. E senza sparare una cartuccia. Non si tratta di un fronte, ma di una ferrovia che penetra l’Africa fino in EtiopiaLa durata del viaggio (per la tratta Gibuti-Addis Abeba) si è drasticamente ridotta da una settimana a 10 (diconsi10) ore. Per quest’opera l’investimento cinese è stato di 3,5 miliardi di dollari. Finanziata al 70% dalla Banca Cinese Exim e progettata interamente dai cinesi. Non solo, per i primi 5 anni saranno cinesi i controllori, i tecnici e i capostazione. Ma il Dragone non si ferma con Addis Abeba, nel futuro si attende una ferrovia che colleghi l’Etiopia con il Kenia e i due Sudan, per una lunghezza non inferiore ai 5.000 km. 

E di fronte a tutto questa frenesia economica e imprenditoriale, cosa fa l’America? Sommessamente dismette in tempo record la base americana (su suole etiope) di Arba Minch – da dove partivano i droni americani. L’Etiopia ha deciso con chi stare e gli Stati Uniti ne hanno semplicemente preso atto. 

Dopo 30 anni di gestione fallimentare USA e UE (per non parlare del Fondo Monetario Internazionale e della Banca Mondiale), l’Etiopia decide di lasciare il vassallaggio, subito con USA e UE,e diventare socia della Cina. Socia. Con dividendi molto piccoli, ma socia.

Per decenni infatti l’approccio occidentale ha voluto subordinareimportanti investimenti per l’Etiopia a determinate condizioni da accettare. Ora invece l’Etiopia scopre nella Cina un partner commerciale. E per la Cina è lo stesso.

Va notata e apprezzata l’eleganza con cui il Dragone ha ‘sciolto il ghiaccio’ offrendo immensi finanziamenti per la già citata ferrovia. Il corteggiamento è stato irresistibile, come per una debuttante essere invitata a ballare dal miglior ragazzo sulla piazza, dopo averlo desiderato per interminabili settimane.

Immaginate la scena: l’Eritrea si dichiara indipendente – decisa a staccarsi dall’Etiopia – e dopo una guerra durata anni, Addis Abeba si ritrova senza più l’accesso al mare e soffocata dai dazi pesantissimi che gli stati limitrofi le offrono per raggiungere uno sbocco attraverso le loro terre. La disperazione porta l’Etiopia a forzare il confine con Gibuti, ma l’ex colonia chiama in aiuto la matrigna e l’Etiopia viene ricacciata nei suoi confini.

Oggi, un’affascinante Cina, non solo ammorbidisce il Gibuti nei confronti dell’Etiopia ma finanzia la ferrovia che permetterà a quest’ultima di rivedere il mare, e offre lavoro a 20 mila etiopi per la costruzione della stessa. Un sogno inaspettato che diventa realtà.

Il soft power cinese è ben solido a differenza di quello di Obama o della UE. Ricordo un ridicolo gesto di qualche mese fa che la Merkel fece in visita in Etiopia. Lasciò una mancia al governo di Addis Abeba ‘perché non partissero altri profughi per il Mediterraneo’. Forse lo scopo era ‘fare qualcosa di destra’, a favore di telecamera tedesca, nei confronti dell’immigrazione che ora preoccupa la Germania. Ma oltre ad offendere uno stato sovrano con controproducenti ricatti ed elemosine, va ricordato che la mancia non fu affatto un investimento ma una consegna di denaro assistenzialista ad uno stato che assistenzialista non è mai stato. L’Europa non ha ancora capito quello che invece è lampante per la Cina: gli investimenti passano attraverso il mercato perché così si ha la certezza di farlo crescere e poterne raccogliere i frutti.

Forse non tutti sanno che l’economia etiope è tra quelle a maggiore crescita a livello planetario. Una crescita che ha toccato la doppia cifra percentuale negli ultimi anni.

E la Cina, attenta come nessun altro a questi temi, lo sa bene. Ormai lo stipendio per chi inizia a lavorare in Cina non è inferiore a 370 €/mese mentre in Etiopia gli imprenditori cinesi pagano gli etiopi 10 volte meno. Qui il costo del lavoro è molto basso, l’industrializzazione è in una fase iniziale e il contadino etiope – dopo anni di carestia – vede come un miraggio la possibilità di guadagnare in una fabbrica ben 37 €/mese, stabilmente. Infine il costo del lavoro etiope è più basso di quello del Bangladesh e dello Sri Lanka (dove sta crescendo la forza dei sindacati e i controlli), persino in Africa non ci sono paesi concorrenziale come l’Etiopia. In Kenia, ad esempio, le paghe sono 6 volte superiori a quelle etiopi.

L’unica condizione dettata dalla Cina prevede il riconoscimento di una e una sola Cina. Un argomento sensibilissimo per Pechino, quello dell’unità. Sottolineare l’esistenza di Taiwan è visto come un affronto. Immaginatevi quanti armadi di vesti hanno stracciato i cinesi una volta venuti a sapere della telefonata intercorsa fra il neopresidente Trump e la numero uno di Taiwan, Tsai Ling-WenTrump ? Uno sprovveduto? Una figuraccia? Ricordo che Trump è lo stesso che vuole far tornare la produzione delle industrie in America. Ora, questa telefonata. Gli Stati Uniti stanno usando unlinguaggio pragmatico che ricorda quello russo, molto nelle corde di quello cinese, senz’altro molto comprensibile, viste le reazioni.I timori della Cina, sono evidenti e comprensibili. Trump ha subito capito quale ferita sanguinante stressare per ottenere l’attenzione del Dragone.

Qui si conclude il mio tentativo di accendere qualche riflettore su una realtà, credo, ignorata dai più.

Sarei già soddisfatto se, alla fine del telegiornale di domani dove verranno spettacolarizzate e narrate tante guerre (soprattutto in Siria ed in Iraq, senza dimenticare la buona Ucraina contro la cattiva Russia), vi fermaste un minuto a pensare a quei 10 mila soldati cinesi in Africa che scortano non tanto le navi commerciali del golfo di Aden ma i primi coloni di una Big China che sta sbarcando – pacificamente – sulle coste orientali della Normandia africana.

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